venerdì 21 novembre 2008

Alla scoperta del "fenomeno" del carry trade

Genesi di una pratica sempre più diffusa tra gli investitori

Qualche anno fa presi parte a un seminario sul Forex, il mercato delle valute. In quell’occasione ascoltai alcuni partecipanti, soprattutto imprenditori del milanese, mentre parlavano con entusiasmo della possibilità di indebitarsi a tassi prossimi allo zero e trasferire quello stesso denaro in alternative con ottimi rendimenti. Non nascondo che l’argomento, in quel momento, risultò per me poco chiaro (essendo ancora un neofita sui mercati) ma allo stesso tempo suscitò un’enorme curiosità che mi spinse più volte ad approfondire quelle tematiche. E ora eccomi qui a raccontarvi quello che ho imparato su questo argomento, cercando di trasmettervi nella maniera più semplice possibile gli elementi fondamentali del cosiddetto “carry trade”.

Il carry trade non è altro che una pratica speculativa, molto diffusa tra investitori e imprenditori, che permette di prendere a prestito denaro in un Paese con tassi di interesse molto bassi per poi investirlo in strumenti finanziari denominati in altre valute con rendimenti molto elevati.

Un’operazione di carry trade riguarda generalmente monete di Paesi con un tasso di cambio molto stabile mentre il successivo investimento viene diretto in strumenti free-risk come i titoli di Stato.

Funzionamento del Carry Trade tratto da www.borsaitaliana.it


La valuta più interessante per indebitarsi negli ultimi anni è stata sicuramente lo yen. In Giappone il costo del denaro è prossimo allo 0%. Gli investitori che operano in un simile contesto macroeconomico, e tenendo conto che il cross Usd/Jpy (dollaro statunitense/yen giapponese) è stato pressocché stabile tra 1/120 e 1/100 (vedi grafico mensile), hanno potuto lucrare sul disallineamento dei tassi rispetto alla media internazionale prendendo a prestito denaro in yen a costi irrisori e investendo, in valute straniere, in strumenti finanziari a basso rischio o titoli di Stato con rendimenti appetibili di economie di “prima fascia” (dollaro neozelandese, canadese e australiano, sterlina, dollaro americano) o di “frizzanti” mercati emergenti (lira turca, real brasiliano, peso argentino, rand sudafricano).



Teoricamente questa pratica è difficile da mettere in piedi. Infatti, quando un Paese (o un’area valutaria) presenta un tasso di interesse molto basso il rischio di deprezzamento della propria valuta è basso perché l’offerta di moneta dovrebbe essere anch’essa molto inferiore. In questo modo, la valuta che presenta tassi di interesse inferiori può apprezzarsi nel corso del tempo rispetto alle altre valute andando così ad annullare il differenziale dei tassi. Teoricamente dovrebbe essere così, ma nella pratica è avvenuto tutt’altro.

Infatti, bisogna tener presente che il Giappone vive una situazione economica particolare da moltissimi anni, caratterizzata da deflazione e capacità di crescita quasi esclusivamente attraverso le esportazioni. La Banca Centrale nipponica ha così mantenuto “artificiosamente” il valore dello yen il più basso possibile, per continuare a incoraggiare le esportazioni locali, aumentando la massa monetaria. Inoltre, grossi investitori istituzionali (soprattutto gli hedge funds) hanno continuamente messo sotto pressione lo yen con vendite costanti per acquistare altre valute dai rendimenti decisamente più elevati, tanto che si è anche giunti al Chicago Mercantile Exchange (CME) al record di net position in yen future di un trilione di dollari. Ma anche molti investitori giapponesi hanno cercato di approfittare del differenziale dei tassi investendo in modo massiccio soprattutto in dollari neozelandesi.

Il carry trade è un fenomeno tenuto sotto stretta sorveglianza sui mercati finanziari perché può avere importanti ripercussioni soprattutto nel breve termine. Infatti, nel momento in cui si verifica un’avversione generalizzata al rischio si assiste a grossi scossoni su tutte le asset class in cui si sono riversati i capitali presi a prestito in yen (mercati azionari, valute emergenti, ecc.), con pericoli di forti correzioni ma anche di violente escursioni dello yen giapponese. Una situazione del genere è avvenuta, ad esempio, nell’ottobre del 1998 quando una decisa quanto improvvisa avversione al rischio degli investitori causò un’impennata dello yen del 15% in soli 4 giorni nei confronti del dollaro americano. Un rialzo che, insieme al default della Russia, costò caro al Long Term Capital Management, il gigantesco hedge fund che perse 4.600 milioni di dollari in pochi giorni e che obbligò la Federal Reserve a mettere in piedi un piano di salvataggio per evitare un crack finanziario mondiale.

Più recentemente, invece, quando è saltata fuori la tempesta dei mutui subprime nell’estate 2007, con conseguente condizione generalizzata di avversione per strumenti rischiosi, in meno di un mese lo yen ha avuto un balzo del 30% nei confronti del dollaro neozelandese, del 10% contro dollaro americano (in un periodo, però, più lungo, 2 mesi), del 15% contro sterlina inglese, del 13% contro euro e del 25% contro dollaro australiano. Insomma, quanto basta per mettere in ginocchio parecchi “appassionati” di questa pratica speculativa.

Ancora, quando a settembre 2008 le Borse mondiali sono tornate a crollare quotidianamente a ritmi che non si vedevano dalla crisi del 1929, lo yen ha messo in atto escursioni da capogiro nei confronti soprattutto delle valute high yield come il dollaro australiano e quello neozelandese.


Il carry trade è un fenomeno che difficilmente si estinguerà nel lungo termine. Oggi la valuta di interesse è lo yen, ma domani potrebbe diventare il franco svizzero (già interessante per il suo saggio di interesse intorno all’1%) o addirittura l’euro. Chissà. L’unica preoccupazione rimarrà sempre la misura e la percezione del rischio che, come al solito, difficilmente sarà presa in considerazione dagli investitori.

A cura di Nicola D'Antuono

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